Un elogio della lingua francese? È vero, sappiamo bene che l’inglese è la lingua più parlata in Europa (38 per cento). Ma spesso dimentichiamo che è il francese la seconda (12 per cento) e che ben 51 paesi nel mondo parlano francese. Basterebbero questi dati numerici a rendere evidente l’utilità di studiare la lingua di Montaigne e di Stendhal. E si potrebbero poi aggiungere elementi economici, a beneficio dei funzionalisti: la Francia è il secondo partner più importante per il nostro Paese con un volume d’affari intorno ai 200 milioni di euro di scambi economici quotidiani. Non basta? Allora sappiate che i 100 gruppi imprenditoriali francesi presenti in Italia garantiscono 239 mila posti di lavoro nella penisola: e non si capisce perché mai trattando tra loro, un parigino e un milanese dovrebbero parlare in inglese. Ma forse quel che conta di più è la sorellanza tra le due lingue: italiano e francese. Sorellanza storica e comunanza culturale. La conoscenza della prima aiuta (e arricchisce) la conoscenza della seconda e viceversa.
Per non dire che, come segnala Tullio De Mauro, il 75 per cento del vocabolario inglese è composto di parole prese in prestito o dal francese o direttamente dal latino: dunque, a ben guardare, lo studio del francese potrebbe favorire anche l’apprendimento dell’inglese. Certo, si tratta di una scelta fuori moda: il francese era la prima lingua straniera per i nostri padri, dei nonni e dei bisnonni. E oggi sono lontanissimi i tempi in cui quella di Sartre era la lingua internazionale per eccellenza, europea, moderna: una trasformazione politica, economica e culturale ha spostato il baricentro verso anglo-americano.
All’epoca dell’esotismo linguistico (e dell’instabilità economica), ci si orienta eventualmente verso il cinese (i cinesi sono tanti, sono ovunque e sono in espansione): ma a furia di imparare tutti l’inglese e il cinese, chi sarà in grado di trattare economicamente e culturalmente con i francesi (che sono peraltro restii a inchinarsi supinamente di fronte all’inglese come invece tendiamo a fare noi)? La vera sorpresa viene dagli economisti delle lingue, quando affermano che è molto più redditizio per un italiano investire sul francese (o sul tedesco) che non sull’inglese (sic!), poiché si tratta di conoscenze più rare e dunque più ricercate e remunerate. Tra l’omologarsi e il differenziarsi, viene consigliata la seconda via. Per una volta, l’economia e la cultura andrebbero d’accordo.